sabato 24 dicembre 2016

Odor di zolfo.

Ci sono luoghi, un tempo sede di operose attività produttive, che ora giacciono inerti nella condizione del più silenzioso abbandono.Troppo spesso tocca loro anche il vile oblio degli uomini. E' questo il caso di molte aree minerarie del nostro Paese, dismesse per essere venuto meno il vantaggio economico di proseguire nel lavoro di estrazione. E' con l'animo avventuroso dell'esploratore che ho percorso, più e più volte oramai, quel territorio collinare al confine tra le Province di Pesaro ed Ancona che fu teatro, oltre che di umane fatiche sottoterra, pure di  vivace vita sociale in superficie, culminata nel clamoroso sciopero del 1951  - peraltro testimoniato  dal documentario "Pane e zolfo" di Gillo Pontecorvo (https://youtu.be/AmQ1sKJ3WuI) - quando i minatori scelsero di restare ad oltranza seppelliti nelle viscere della terra per protestare contro la chiusura dello stabilimento minerario di Cabernardi (An). Fu inevitabile che analoga sorte toccasse a sito di Percozzone (Pu) ed alla Raffineria Montecatini di Bellisio (Pu), dove lo zolfo grezzo giungeva per subire la lavorazione finale prima di essere, sempre attraverso teleferica. trasferito alla locale Stazione Ferroviaria, da dove avrebbe poi proseguito per le destinazioni di consumo. Oggi Cabernardi (An) è sede attiva di un Parco Minerario e di un Museo (http://www.minieracabernardi.it/) che ne raccoglie le memorie storiche. Non hanno avuto lo stesso destino il sito minerario di Percozzone e la Raffineria di Bellisio, dove presso la Stazione nella tratta ferroviaria Pergola-Fabriano, anch'essa da poco dismessa, sono presenti a tutt'oggi i magazzini di stoccaggio dello zolfo. Percorrere in solitudine quei silenziosi sentieri pregni dell'acre odore di zolfo, irti di rovi e certamente densi di insidie nascoste - parrà paradossale - ma mi è stato più rasserenante di una passeggiata in riva al mare. E' assai probabile debba ciò alla docile compagnia della mia fotocamera.





mercoledì 7 dicembre 2016

Il tempo della mia fotografia.

Oltre dieci anni di vagabondaggi con l'occhio di vetro appeso al collo li ho stipati nella memoria numerica di non so quanti supporti magnetici,nascosti qua e là nell'accampamento di cose della casa che non riesco ad abitare. Dopo che due di codesti aggeggi hanno smesso di funzionare, probabilmente a causa di qualche mia errata manovra alla tastiera, ho preso la decisione di sfogliare una ad una le pagine contenenti tutto quel vissuto percepito ed immagazzinato nella maniera più tecnologicamente avanzata. Ciò facendo, mi tornano alla mente luoghi, cose in gran parte scomparsi ed anche persone - quasi sempre homeless - incontrate durante quei pellegrinaggi. Il bello della fotografia è che tocca profondamente la sfera emotiva proprio in virtù dell'atto di verità che essa compie solo e soltanto in quell'istante di posa e che rimane impresso, nella forma corrispondente alla tecnica di registrazione meccanica adottata - analogica o digitale - su una materia esterna alla mente, considerata quest'ultima come materia a sua volta. Ebbene, questo processo, appena iniziato per l'ovvia necessità di dare ordine e senso a tanto tempo speso a curiosare il mondo a me accessibile, dovrà durare del tempo a causa dell'enorme mole di dati da rielaborare. Sarà inevitabile riscoprire ricordi sepolti e propositi mancati. Ne darò conto, prima di tutto a me stesso. Tanto per ricordare la storia: soltanto due secoli fa quest'operazione sarebbe stata impossibile.





martedì 6 dicembre 2016

Tra malattia e terapia c'è di mezzo la fotografia.

Che la fotografia possa assolvere un compito di tipo terapeutico è di certo possibile, a maggior ragione oggi che il medium digitale di ripresa è alla portata di chiunque. In un mondo dove l'individuo è sempre più lasciato a se stesso ed i conflitti d'ogni genere oltrepassano senza ostacoli tutte le frontiere, ecco che la solitudine - intesa come stato dell'anima, ma pure come pratica concreta dell'assenza - diventa condizione esistenziale dilagante. Formulare la diagnosi di un malessere così indistintamente diffuso non è più compito socio-sanitario, bensì socio-politico.  Nè questa è missione scelta - tra le altre -  da chi, per l'autorità sociale ereditata o conquistata, esercita potere di dominio. Se in merito all'evidenza, sempre più rimossa, del disagio individuale vengono meno precise azioni di controllo e cura da parte delle autorità istituzionalmente accreditate, ecco che la funzione passa dalla mano pubblica a quella individuale. Con la conseguenza che ci si arrangia come si può. Spuntano, nel clima falsamente rassicurante generato dalle nuove tecnologie digitali, ogni genere di formule terapeutiche. Tra queste, la fotografia ha conquistato un ruolo preponderante anche se, bisogna dirlo, la cosiddetta pet-terapia non lascia scampo neppure ai mendicanti. Ritenendomi testimone autorevole di questa epocale deriva comportamentale, ne faccio pubblicamente oggetto di confessione: la mia pratica fotografica è diventato il principale linguaggio attraverso cui credo di esprimere una identità riconoscibile da anime affini. Mi basta per vivere senza angustie, angosce o traumi.