giovedì 9 febbraio 2017

Avarie della memoria.

Conservare per tramandare è sempre stato compito grave ed irto di ostacoli pratici. Non sempre  sono corrisposti risultati soddisfacenti a specifiche volontà, vuoi perchè i supporti di memorizzazione prescelti non garantirono durata nel tempo o per causa dell’incuria di chi fu destinato a riceverne il cambio di mano e, da ultimo, per l’insorgere di eventi imprevedibili od ingovernabili, come conflitti o calamità naturali. Tanto che, se ci guardiamo attorno, i panorami che la Storia tramanda sono in prevalenza composti da Rovine. Da quasi due secoli l’immagine meccanica conserva porzioni di mondo congelate in un istante ed a nessuno sfuggono i progressi compiuti dalle tecnologie di riproduzione fotografica del reale. Quanto abbiamo identificato come cambiamento di paradigma nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale, mentre dilata enormemente le capacità di immagazzinamento nei processi di archiviazione numerica da un lato, dall’altro evidenzia evidenti criticità nella durata e nella vunerabilità dei materiali magnetici, nonchè sulla progressiva ed incessante obsolescenza degli standard tecnologici in materia di conservazione dei dati: in fatto di memoria esterna all’unità computazionale si è passati, nell’arco di poco più di un decennio, dal defunto “floppy-disk” al metallico “Blue-ray” di oggi, ma già in declino.  Da capacità irrilevanti a capacità strabilianti. Evidentemente,  la questione riguarda assai di più la qualità dei contenuti, piuttosto che la quantità dei dati trasportati. Tuttavia, senza la disponibilità di sempre più capienti archivi di memoria, non sarebbe stato possibile veicolare e trasmettere a distanza sequenze ininterrotte di “discorsi” a carattere multimediale. Il linguaggio prevalente per comunicare, specie tra gli appartenenti alle generazioni dei nativi digitali, è quello – ormai tendenzialmente anglofono  – del technologically correct dei manuali di istruzione e delle riviste di elettronica di consumo. Ma, se in questo scenario in cui tutto pare collocarsi secondo una prospettiva di euforico evoluzionismo, considerassimo invece l’estremo grado di vulnerabilità cui sono soggette reti, infrastrutture e veicoli di informazioni, allora ci renderemmo conto di quanto conti la memoria per guardare al futuro. Il grande occhio della memoria collettiva, stivata  entro precari contenitori di materia digitale , ogni giorno corre il rischio dell’imprevedibile “corto circuito”, che non sarebbe necessariamente frutto di azioni volontarie, ma vittima di casualità necessarie o negative coincidenze. Inutile ricordare come, dal baco del millennio a WikiLeaks, quanto si siano accorciate le distanze di sicurezza tra il controllo e la conoscenza degli apparati virtuali. La memoria, la memoria digitale, quella che occupa poco spazio e si conserva a lungo, ma non indefinitamente, è diventato un bene da difendere con ogni mezzo. Sarà su di essa che si potrà contare per immaginare cosa ci spetta, già solo domani. Ma come la globalizzazione economica ha reso interdipendente il mondo intero, così l’universalità del linguaggio dei new-media ha liquefatto i processi di conoscenza, promuovendo una modernizzazione sempre più tecnocratica e meno democratica. Qualunque tipo di perdita di memoria, entro questo quadro, sarebbe catastrofica.
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Rappresentazione Vs Simulazione.

Scrivere con la luce – fotografare – nell’era digitale comporta una profonda revisione dello statuto ontologico della fotografia, qui intesa nella sua complessità di fenomeno tecno-sociale. Possiamo, infatti, affermare che il nostro rapporto con lo strumento, tra questo ed il proprio soggetto-mondo siano rimasti i medesimi tra il prima analogico e il dopo digitale? Certamente no. La svolta, nel mutamento di paradigma, risale a non molti anni fa e la trasformazione indotta nel sistema di produzione dell’immagine meccanica è definitiva ed irreversibile, nonostante le resistenze  dei puristi, dei nostalgici e dei neo-luddisti. Con ciò, non si vuole misconoscere il valore culturale ed economico espresso dalla estinta filiera della fotografia analogica che, peraltro, prosegue ancora le sue manifestazioni, ma confinata in una nicchia sempre più esigua di aristocratici cultori, quasi sempre spalleggiati da una pervicace astuzia mercantile. Anzi, se ne vorrebbero valorizzare ancor più le potenzialità espressive, le contaminazioni e le declinazioni che il linguaggio fotografico ha assunto e fatto propri nei tempi più recenti. Il come non ha nulla di arcano od esoterico, semplicemente riconosce il portato innovativo e liquido  della materia digitale, di cui sono composte ormai tutte le cose che – dalle più semplici alle più complesse – abitano e fanno vivere il nostro Mondo. E’ indicativo, a tal proposito, il fenomeno della virtualizzazione generalizzata o globale che, in un flusso ininterrotto di bit, avvolge e stravolge l’assetto identitario di Sistemi, Organizzazioni, di relazioni e di azioni individuali. La fotografia analogica e le regole che ne governarono la diffusione oltre la pratica ritrattistica, non è più attivabile, se non in ambiti di conservazione degli archivi o nel ristretto ed elitario nucleo di attivisti della stampa di Fine-Art ai sali d’argento. Un nuovo Mondo di immagini senza materia, senza tempo e senza memoria occupa il presente di chiunque produca gesti di comunicazione. L’occhio che registra con un click si trova nelle tasche di tutti. Una protesi necessaria per stare nel mondo: il telefono cellulare; è proprio dalle sue più evolute performancesche si srotolano volumi di incommensurabile materia digitale, per lo più di consistenza fotografica. L’alto grado di connettività reticolare tra le applicazioni software – è evidente che ci troviamo nel dominio dell’Information Technology – e di interconnessione tra ricetrasmettitori hardware, produce quell’illusione di ubiquità cui spesso siamo incapaci di sottrarci, subendone il fascino subliminale. Fatto sta, comunque, che lo scenario entro cui agisce la socialità contemporanea è quello della comunicazione diffusa e permanente rappresentata, con sempre maggiore influenza regolatrice, dai cosiddetti Social Networks. Lo si voglia o meno, la condizione antropologica dell’umanità “globale”– quel segmento privilegiato che può permetterselo – avrà un carattere ibrido e neutro, derivato dalla simbiosi con lo strumentario tecnologico. In questo quadro, la nuova fotografia, quella che ha cambiato pelle e sostanza, passando dal trattamento chimico delle emulsioni sensibili in camera oscura, al trattamento computerizzato delle informazioni raccolte dal sensore della fotocamera, sperimenterà potenzialità linguistiche inimmaginabili in epoca antecedente. La materia dell’immagine è ora composta da entità immateriali, segnate da codici illeggibili alla mente comune, ma eseguibili da un processore. Trasformate in apparenze, cioè rese visibili sulla superficie retroilluminata di un monitor, accendono infinite possibilità d’uso o, quantomeno, tante quante corrispondano alla volontà poietica di chi si cimentasse nella elaborazione digitale di un’immagine sintetica, attraverso la sofisticata strumentazione software oggi disponibile. Tutto ciò rafforzerebbe, non soltanto la teorizzazione di un “prima analogico” ed un “dopo digitale”, ma escluderebbe per l’universo fotografico – sistema di tecnologie, linguaggi, relazioni sociali e culture – ogni possibilità di ritorno al passato pre-numerico. E se, per la funzione pubblica della fotografia tradizionale, si parlava già di falsi e menzogne in rapporto ad una o molteplici idee di verità, l’atto fotografico – sempre più comune, diffuso e frequente perché relativamente costoso – acquista, con l’opzione post-produttiva, un marcato valore  manipolatorio. Dalla rappresentazione alla simulazione, il passo è stato breve.
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