Che la fotografia possa assolvere un compito di tipo terapeutico è di certo possibile, a maggior ragione oggi che il medium digitale di ripresa è alla portata di chiunque. In un mondo dove l'individuo è sempre più lasciato a se stesso ed i conflitti d'ogni genere oltrepassano senza ostacoli tutte le frontiere, ecco che la solitudine - intesa come stato dell'anima, ma pure come pratica concreta dell'assenza - diventa condizione esistenziale dilagante. Formulare la diagnosi di un malessere così indistintamente diffuso non è più compito socio-sanitario, bensì socio-politico. Nè questa è missione scelta - tra le altre - da chi, per l'autorità sociale ereditata o conquistata, esercita potere di dominio. Se in merito all'evidenza, sempre più rimossa, del disagio individuale vengono meno precise azioni di controllo e cura da parte delle autorità istituzionalmente accreditate, ecco che la funzione passa dalla mano pubblica a quella individuale. Con la conseguenza che ci si arrangia come si può. Spuntano, nel clima falsamente rassicurante generato dalle nuove tecnologie digitali, ogni genere di formule terapeutiche. Tra queste, la fotografia ha conquistato un ruolo preponderante anche se, bisogna dirlo, la cosiddetta pet-terapia non lascia scampo neppure ai mendicanti. Ritenendomi testimone autorevole di questa epocale deriva comportamentale, ne faccio pubblicamente oggetto di confessione: la mia pratica fotografica è diventato il principale linguaggio attraverso cui credo di esprimere una identità riconoscibile da anime affini. Mi basta per vivere senza angustie, angosce o traumi.
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